OGGETTI FUORI POSTO: COMPUTER, BATTERIE, LAMPADE E AEROPLANI NELL’ANTICHITÀ!


Ooparts (Out of place artifact = Oggetti fuori posto): ritrovamenti che non dovrebbero esistere!





Secondo la Teoria degli Antichi Astronauti, in un passato remoto, viaggiatori extraterrestri hanno visitato i nostri antenati influenzando la naturale evoluzione della specie umana.
Gli alieni, hanno davvero ispirato e aiutato i nostri antenati a costruire templi antichi megalitici e piramidi?
E se sono venuti qui, ci hanno lasciato delle conoscenze avanzate di fisica, astronomia e matematica? In tal caso, ne rimane qualche prova oggi?
Un esempio potrebbe essere un oggetto spesso definito come il primo computer meccanico del mondo. Risale a più di 2mila anni fa. La “Macchina di Antikythera” fu rinvenuta nel 1900 da alcuni raccoglitori di spugne, mentre si immergevano al largo di una piccola isola dell’Egeo chiamata Anticitera.

I pescatori trovarono un relitto sul fondo del mare e al suo interno una scatola incrostata dai coralli, composta di una lega metallica. Fu portata al museo di Atene, dove solo 50 anni dopo fu possibile fare una scansione della scatola ai raggi X e distinguere delle rotelle dentellate a incastro collegate fra di loro, dandoci una buona immagine di cosa fosse questo dispositivo: un computer, una macchina davvero sofisticata.
Il congegno è un meccanismo originariamente contenuto in un involucro di legno, dalle misure di 30×15 centimetri che per molto tempo la scienza non è riuscita a catalogare. Si tratta di un oggetto tecnologico di altissima precisione e che aveva prevalentemente funzioni astronomiche.
La macchina è stata studiata nel dettaglio per misurare i movimenti di sole e luna, le eclissi, i loro rapporti di moto e addirittura le lunazioni. E come se non bastasse, la macchina serviva probabilmente anche a definire il calendario delle Olimpiadi.
Il mistero della macchina è tutto in questa sua precisione fuori dall’ordinario. E’ infatti costruita con materiali comuni per il tempo e le misurazioni sono limitate ai pianeti visibili dalla terra senza ausilio di strumenti particolari.
Ma il livello di dettaglio rimane stupefacente: è confermata la capacità del dispositivo di calcolare persino i ritardi nei movimenti lunari, per via dell’orbita ellittica, con un opportuna progettazione e un ingranaggio dedicato.
Nelle iscrizioni sulla macchina ci sono i nomi di Venere e Mercurio, ma ci sono studiosi che sostengono che la macchina di Anticitera possa in realtà rivelare informazioni anche su altri pianeti.
La macchina viene definita dalla scienza come tecnicamente molto più complessa di ogni altro dispositivo ipotizzabile e rinvenuto per almeno mille anni successivi alla sua datazione.
Un tale livello di complessità può significare che chi l’ha costruita fosse ad uso a questo tipo di lavoro: non sarebbe quindi un esemplare unico, ma qualcosa che inevitabilmente viene da una storia lunga.
Si pensa che l’oggetto risalga al 200 a.C. Data la sua complessità, superiore a qualsiasi orologio svizzero contemporaneo, la Macchina di Anticitera è da considerarsi un’anomalia. Chi può averlo creato? E per cosa veniva usato?
Quando gli archeologi cominciarono ad esaminarlo negli anni ’50, dissero che era inconcepibile che gli antichi greci avessero realizzato una macchina così complicata. Dissero che era come trovare un jet a reazione nella tomba di Tutankhamon.


Le lampade di Dendera
Ancora più antiche della Macchina di Anticitera, sono le incisioni su un muro nel complesso monumentale di Dendera, in Egitto. Ad alcuni, questi strani disegni sembrano raffigurare oggetti comunemente utilizzati nella nostra epoca.

Le raffigurazioni si trovano in una cripta sotterranea segreta, alla quale solo i più alti sacerdoti avevano accesso. La cripta è un posto molto angusto, con il soffitto molto basso e con una temperatura ambientale molto alta.
Sulle pareti della cripta ci sono alcuni rilievi che sembrano rappresentare quelle che sembrano delle enormi lampade a filamento. Guardando le immagini e considerando l’oscurità della cripta, la domanda sorge spontanea: “Gli egizi come illuminavano l’interno delle loro tombe?”
Secondo l’archeologia tradizionale, gli antichi egizi usavano delle torce per illuminare le camere di tombe e templi. Eppure, sui soffitti non c’è la minima traccia di fuliggine o residui di fumo. Inoltre, all’interno di quelle tombe, non c’è ossigeno a sufficienza per alimentare la fiamma di una torcia. Ma se non usavano le torce, in che modo illuminavano i vani e i lunghi corridoi oscuri?
Un’altra teoria era che la luce del sole veniva direzionata dall’esterno con l’ausilio di specchi di rame. Alcuni archeologi provarono a riprodurre la tecnica proposta da questa teoria, ma purtroppo fallirono perché dopo pochi angoli la luce del sole si dissipava completamente, in quanto gli specchi di rame non erano in grado di riflettere pienamente la luce del sole.
E allora, come erano illuminati gli interni degli edifici egizi? L’unica soluzione a cui possiamo pensare è a una qualche fonte di luce artificiale, per esempio una lampadina ad incandescenza. Nella cripta sotterranea di Dendera, troviamo dei rilievi che raffigurano tali lampadine.

Gli egittologi classici hanno dovuto trovare a tutti i costi una spiegazione, anche la più banale, alle raffigurazioni di Dendera. Secondo l’archeologia classica non è possibile che si tratti di dispositivi elettrici.
Secondo questi studiosi, le raffigurazioni rappresentano un fior di loto e le linee che lo circondano e che sembrano dare forma ad una lampadina, in realtà rappresentano il profumo del fiore di loto. Paradossalmente, è più semplice la spiegazione che vuole che gli egizi avevano scoperto la corrente elettrica e avevano imparato uno dei modi possibili di utilizzarla.
Anche perchè il principio di funzionamento di una lampadina ad incandescenza non è così complicato come si crede: c’è bisogno di una corrente elettrica che attraversi un materiale metallico che, scaldandosi, emette una radiazione luminosa. Il filamento delle nostre lampadine è di tungsteno il quale, al passaggio delle corrente, si scalda fino a produrre una radiazione luminosa molto intensa.
Come potevano gli antichi egizi aver usato qualcosa che somigliasse a una lampadina di oggi senza aver accesso alla corrente elettrica, che sarebbe stata scoperta solo migliaia di anni dopo? Questo è vero solo se non prendiamo in considerazione quella che gli scienziati chiamano la “Batteria di Baghdad”.


La Batteria di Baghdad
La Batteria di Baghdad è un manufatto risalente alla dinastia dei Parti (150 a.C.–226 d.C.) in Persia, e probabilmente scoperto nel 1936 vicino al villaggio di Khujut Rabu, presso Baghdad, Iraq. L’oggetto divenne noto all’opinione pubblica solo nel 1938, quando il tedesco Wilhelm König, direttore del Museo nazionale dell’Iraq, lo trovò nella collezione dell’ente da lui diretto.

Gli studiosi di oggi ritengono impossibile che gli antichi utilizzassero l’elettricità o le lampadine, perciò, quando guardano la dozzina di esemplari di questa antica batteria rinvenuta in Iraq, l’unica teoria che propongono è che gli antichi le utilizzassero per placcare elettricamente i gioielli in metallo.
Due principali sostenitori della Teoria degli Antichi Astronauti, Jason Martell e Giorgio A. Tsoukalos, utilizzando una riproduzione moderna della batteria di Baghdad, hanno dimostrato come questo antico accumulatore sia capace di generare basse tensioni utilizzabili.
Praticamente, prendevano di una giara di argilla, materiale che si trova naturalmente nella regione dell’Iraq meridionale. Poi utilizzavano una piccola guarnizione di rame con un piccolo tappo di asfalto avvolto attorno ad un bastoncino di ferro.
Assemblati in questo modo e combinati con un acido debole come aceto, succo d’arancio o vino, questo dispositivo è in grado di generare una carica elettrica.

L’idea che delle civiltà antiche conoscessero l’elettricità e la utilizzassero è un fatto ormai accettato a livello archeologico. Nella nostra civiltà, sappiamo che circa 200 anni fa, Benjamin Franklin e altri scienziati, cominciarono a sperimentare la corrente elettrica con dei semplici dispositivi. Ora abbiamo la prova che, oltre 3000 anni fa, altre persone sperimentavano con dispositivi elettrici.


L’Uccello di Saqqara
A Saqqara, in Egitto, sorge la famosa piramide a gradoni di re Gioser. Con un’età di oltre 4 mila anni, è la più antica delle 97 piramidi d’Egitto. Saqqara è famosa anche per essere uno dei complessi funerari più antichi d’Egitto, guadagnandosi il soprannome di “Città dei Morti”.
E’ qui che nel 1891 alcuni archeologi francesi riportano alla luce una tomba antica contenente i resti di Pa-di-Imen, un funzionario di corte del III secolo a.C. Fra i vari reperti, viene ritrovato un piccolo modellino in legno di quello che sembra un uccello, vicino ad un papiro su cui era scritto “voglio volare”.

Il manufatto viene inviato al museo del Cairo dove le autorità lo sistemano insieme ad altre statuette di uccelli. Lì vi rimane, senza suscitare particolare attenzione, fino al 1969 quando l’egittologo Khalil Messiha, esaminando la collezione di uccelli, non nota che nell’uccello di Saqqara c’è qualcosa di molto diverso dagli altri.
Da una parte sembrerebbe un uccello, con gli occhi e il becco tipici di un volatile. Dall’altra, le ali non sono quelle di un uccello, infatti sono modellate verso il basso e, il loro spesso tende a diventare più sottile verso l’estremità. E’ un design aerodinamico molto moderno.
Infine, gli uccelli non hanno il timone in quanto non ne hanno bisogno a causa della loro conformazione aerodinamica, perciò si pensa che questo manufatto non rappresenti un uccello, bensì una macchina volante, un aeroplano!

Gli antichi egizi, dunque, sapevano volare? Nel 2006, l’esperto di aviazione e aerodinamica Simon Sanderson, ha costruito un modello in scala dell’uccello di Saqqara, cinque volte più grande dell’originale, per testare la possibilità che si tratti realmente di un aeroplano.
Ebbene, ponendo il modello in scala in una galleria del vento, Senderson si è reso conto che l’Uccello di Saqqara è in grado di volare. I test dimostrano che il manufatto è la riproduzione in scala ridotta di un aliante altamente sviluppato ed è simile ai progetti utilizzati anche oggi.
Anche alcuni modelli informatici confermerebbero l’idoneità al volo dell’Uccello di Saqqara. Ma c’è un altro problema da considerare: se l’aliante era in grado di volare, in che modo avveniva il lancio?
Oggi viene utilizzato un aereoplano da traino, che trascina l’aliante in aria e poi lo sgancia raggiunta l’altitudine necessaria. Come avrebbero fatto gli antichi egizi a far volare l’uccello di Saqqara?
Alcuni studiosi, ipotizzano che l’aliante fosse spinto in area grazie all’ausilio di una potente catapulta, capace di proiettare l’aliante ad alta quota. Gli archeologi egizi hanno confermato che gli antichi egizi possedevano le capacità tecniche per costruire un simile congegno.
Anche oggi, uno dei sistemi utilizzati dagli appassionati di alianti, è quello di lanciarsi in aria con l’ausilio di corde elastiche, utilizzando un principio simile a quello della catapulta.
Ma se l’Uccello di Saqqara può volare, gli antichi egizi come acquisirono una tecnologia simile? Secondo i Teorici degli Antichi Astronauti, l’Uccello di Saqqara è una delle prove più rilevanti del fatto che in passato, antichi viaggiatori alieni, abbiano incontrato i nostri antenati e trasmesso cultura, tecnologia e conoscenza, passando da una cultura primitiva, ad un più altamente sviluppata.
Ma l’Uccello di Saqqara, come la Macchina di Anticitera, le Lampade di Denderae la Batteria di Baghdad, potrebbe anche essere l’ultimo simbolo di una ancestrale civiltà umana antidiluviana, andata distrutta in un qualche cataclisma cosmico di migliaia di anni fa?
I superstiti di questa civiltà “atlantidea” avrebbero potuto trasmettere la conoscenza e la cultura alle generazioni primitive post-diluviane, nel tentativo di ricostruire la civiltà umana. Tutte queste possibilità, cambiano di molto il nostro punto di vista sulle civiltà antiche.
FONTE:

Nessun commento:

Posta un commento

Post più popolari

AddToAny