Riprendiamoci il Mondo... E' l'Era del Risveglio

Tra gli interventi più apprezzati e discussi alla Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia, quello di Veronika Bennholdt-Thomsen, etnologa e sociologa femminista, ha intrecciato i temi della decrescita con una prospettiva di genere. Veronika Bennholdt-Thomsen dirige l’Institute of the Theory and praxis of subsistence a Bielefeld, in Germania ed è docente alla università di Vienna.

Ha condotto molte ricerche su questioni di genere, sull’economie regionali e di antropologia sociale in Messico e in Germania. È autrice di numerosi libri sulle alternative di sussistenza in Europa e nel Sud del mondo.

Questo scritto è la traduzione dell’intervento tenuto al congresso Prospettive della politica matriarcale, St. Gallen, in Svizzera, nel maggio 2011, da poco pubblicato sul sito dell’università Ca’Foscari di Venezia (grazie a Dep-Deportate Esili Profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, unive.it, traduzione di Guido Londero).

In modo profondo e brillante l’autrice analizza i nessi tra critica allo sviluppo (per capirci, quella di Ivan Illich, Jean Robert, Majid Rahnema, Vandana Shiva, André Gorz e Serge Latouche), questioni di genere (Geneviève Vaughan e altre studiose, attente ai valori delle società matriarcali) e cambiamento dal basso (John Holloway soprattutto ma anche Raúl Zibechi, Rebecca Solnit, Chris Carlsson, John Scott, Arundhati Roy, Miguel Benasayag, John Berger, Gustavo Esteva, Immanuel Wallerstein, Howard Zinn, Cornelius Castoriadis).

Introduzione. La politica della prospettiva di sussistenza: di cosa si tratta?

Viviamo in un periodo di trasformazioni radicali. Coloro che vedono in esse una crisi della civiltà sono sempre più numerosi. Con ciò si intende che tutte le varie «crisi»: la crisi climatica e quella ambientale, ovvero le cosiddette catastrofi naturali, la crisi finanziaria e quella economica, la crisi alimentare – che in realtà è una «crisi» dei prezzi dei prodotti alimentari – e infine la catastrofe atomica – eufemisticamente definita come crisi dell’energia atomica – confluiscono in un’unica crisi, vale a dire la crisi dei valori e della cultura, ormai diffusa in tutto il mondo, basata sulla fede nella crescita economica che va perseguita mettendo a repentaglio i singoli, le nazioni e infine l’intera umanità.



Il consumo di massa è divenuto il pilastro della crescita del profitto, l’aspirazione alla crescita del profitto a sua volta alimenta il consumismo e insieme sfociano nella distruzione dell’umanità e nel saccheggio della natura. Ciò che legittima il nesso tra la crescita del profitto e la propensione ai consumi è il «vantaggio individuale», o come sin dai tempi di Adam Smith è stata eufemisticamente definita l’avidità, «l’interesse».

La sua ben nota tesi centrale è assurta a principio fondamentale dell’economia. Perseguendo il proprio vantaggio ciascuno può contribuire più efficacemente al benessere della nazione che non dedicandosi espressamente al benessere collettivo. La politica dello sviluppo ha diffuso questa fede in tutto il mondo, come fosse una religione. Nella seconda metà del ventesimo secolo l’eresia era il «sottosviluppo».

Nel ventunesimo questa ortodossia si è definitivamente imposta e si è completata la Conquista. La globalizzazione dei mercati in un unico mercato mondiale ha trionfato. In nome del libero mercato mondiale milioni di contadine e di contadini vengono derubati della propria terra, vale a dire della base di sostentamento, altri sono privati delle proprie sementi e migliaia sono spinti al suicidio a causa dell’indebitamento per le sementi chimiche.

I profughi vengono respinti verso altri paesi, economicamente più fortunati. A migliaia muoiono durante la fuga. Le grandi imprese nel campo dell’energia non temono di impiegare la tecnologia atomica che minaccia ogni forma di vita, mentre i governi si rendono loro complici per raggiungere la presunta crescita economica. L’economia stessa è diventata guerra, il denaro arma. Il confine con la violenza bellica sanguinaria è fluido.

Noi, che apparteniamo alla società globalizzata della massimizzazione, ci troviamo al bivio. Accettiamo che questa civiltà distrugga il mondo oppure no? Si tratta di una questione di vita o di morte, di qualcosa di concreto, fisico e nel contempo di attinente ai valori, alla fede e all’etica sottesi a questa dinamica. È necessario riconoscere che la visione del mondo della «società della crescita» segue l’ordine simbolico della morte. Non abbiamo bisogno soltanto di un nuovo ordinamento economico bensì, fondamentalmente, di un nuovo contratto sociale basato su nuovi valori.

È essenziale un nuovo contratto sociale

Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale che si fondi sulla valorizzazione delle relazioni tra i viventi e non sulla distruzione dell’umanità e sul saccheggio della natura finalizzato alla massimizzazione del profitto e alla crescita dei consumi.

Abbiamo bisogno di un contratto sociale fondato su un sistema di valori che riconosca la fertilità naturale e vivente, in base alla quale i bambini hanno origine dalle donne, e non dalla provetta di laboratorio, e il cibo dalla terra, e non dalla macchina. Noi abbiamo bisogno di un contratto sociale che superi il produttivismo, teso all’incremento delle merci e del profitto, e sia sostituito dalla cooperazione con le forze naturali viventi.

Abbiamo bisogno di un contratto sociale che si ispiri ai valori della cura materna, affinché le generazioni future crescano rettamente e i malati e gli anziani possano vivere e morire con dignità.

Tutti questi aspetti di un nuovo orientamento rappresentano anche i valori centrali nelle società matriarcali. Nella nostra società patriarcale, al contrario, incontrano un’accanita opposizione, e quando vengono identificati come valori materni e matriarcali, sono spesso oggetto di contestazione anche da parte delle donne.

Noi femministe conosciamo la critica difensiva che ci viene rivolta con lo scopo di sminuire, che è di biologismo e di essenzialismo. Ma ogni essere umano, uomo o donna, può essere premuroso in modo materno.

Ciò non ha niente a che fare con la biologia. Al contrario, il sentimento materno in tutte le culture è il simbolo del sostegno alla vita, e l’ordine simbolico della madre e della maternità rappresenta l’ordine naturale del divenire e del trascorrere.

Lo si ritrova in tutte le culture, a meno che non siano essenzialmente guerriere, come la nostra o quella estremamente oppressiva nei confronti delle donne dei Baruya in Nuova Guinea, con la sua economia primitiva di caccia e raccolta. Fra i Baruya la forza socialmente riconosciuta come decisiva è quella del portare la morte. Ma perfino qui, i portatori di morte si rappresentano come «creatori», come coloro che per mezzo del seme maschile creano la fertilità del campo e che nei riti di iniziazione omosessuali destano i propri figli alla vita.

Anche noi conosciamo la messa in scena della fertilità da parte dell’industria chimica con il suo monopolio sulle sementi, i suoi organismi geneticamente modificati (Ogm), dotati di geni-Terminator incorporati. Esattamente questo è l’autentico biologismo, il logos crea presumibilmente la vita, dopo averla precedentemente strappata alla physis e averla quasi uccisa.

Viene separata e divisa, soffocata e poi creata artificialmente («man made»). Naturalmente, si tratta di una presunta nuova creazione. Proprio questo è l’essenzialismo, essenzialismo patriarcale, e precisamente quello che attribuisce al distruttore l’autentica ed essenziale forza creatrice. Claudia von Werlhof la definisce una pratica alchemica. Una civiltà della post-crescita ha bisogno di un modo di pensare decisamente nuovo.

Nello specifico, occorre superare il concetto di Natura proprio delle scienze naturali, e tendere a una comprensione della natura come riconoscimento della corporeità, della mater-ia, della concreta e sensoriale materialità, riconoscimento di quello che ci è stato dato e del modo in cui la vita stessa ci è stata data, come dono. La teoria della gift economy di Geneviève Vaughan si basa su questo riconoscimento (G. Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi).

La prospettiva della sussistenza e la politica della sussistenza

Da anni, decenni, noi che lavoriamo alla teoria della sussistenza – e nel frattempo siamo diventate numerose, tutte femministe orientate in senso matriarcale – abbiamo criticato duramente la perversione, il rovesciamento di vita e morte da parte dell’economia della crescita e della sua politica di sviluppo globalizzata. Ma non c’è nulla di più complicato del parlare contro dogmi consolidati. Lo so per amara esperienza. Ma proprio di questo si tratta: analizzare criticamene i dogmi indiscussi e cercare i modi in cui, ai nostri giorni, nel ventesimo e ventunesimo secolo, possano funzionare diversamente, in modo assolutamente pratico e pragmatico.

«Sussistenza», il concetto e il suo significato

Sussistenza è ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, ciò con cui la vita «prosegue», come asserì Gertrud Mies, la madre di Maria Mies. Lei, contadina di lingua tedesca dell’Eifel, probabilmente non conosceva ancora l’espressione «sussistenza», prima che sua figlia si dedicasse al tema, a differenza delle contadine di lingua inglese in India presso le quali Maria ha compiuto le sue ricerche, o dei contadini di lingua spagnola in Messico, dove ho svolto le mie, o di quelli francofoni in Africa Occidentale o in Svizzera. In latino «subsistere» ha il significato di «ciò da cui deriva la propria esistenza, la propria essenza».

Con ciò si fa riferimento al processo che esiste e continua grazie a una certa forza vitale. Gli esseri umani vengono ricompresi come parte della totalità di questo processo. La nostra definizione sottolinea la partecipazione attiva da parte degli umani. «Produzione di sussistenza» – o produzione vitale – comprende tutto il lavoro svolto per la produzione e la conservazione della vita immediata, che ha questo preciso scopo. In questo senso il concetto di produzione di sussistenza si contrappone a quello di produzione di merce e valore aggiunto.

Nella produzione di sussistenza l’obiettivo è la «Vita». Nella produzione di merci l’obiettivo è il denaro, che «produce» sempre più denaro oppure l’accumulazione del capitale. La vita si presenta in un certo senso soltanto come effetto «collaterale». Orientamento alla sussistenza, è lo sguardo al necessario, non soltanto per noi stessi, ma anche per gli altri, l’esatto contrario dell’interesse personale. «Vivere e lasciar vivere», dice la gente nella Warburger Börde, nella Westfalia orientale. E questo significa anche vivere in modo tale che non lo si faccia a spese della sussistenza degli altri. La mia sussistenza comprende sempre anche la sussistenza degli altri.

Questa morale della sussistenza, che E. P. Thompson ha individuato anche nel comportamento della classe operaia inglese del tardo diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo, e che ha definito moral economy, è più importante che mai in un mondo globalizzato: vivere in modo tale che io con il mio consumo non sottragga niente ad alcuno, in alcun luogo. Think globally, act locally!

Orientamento alla sussistenza significa liberazione dalla fissazione sul «di più e sempre di più», significa riconoscere ciò che è superfluo, quando interviene la sazietà e quando comincia l’avidità, che divora soltanto tempo e voglia di vivere. Sussistenza significa non fidarsi più del denaro, ma delle forze viventi, anche delle proprie.

Sussistenza significa mettere alla prova le proprie capacità, significa fare da sé e, d’altro canto, significa consolidare insieme agli altri le nostre basi di esistenza. Non si può mangiare il denaro, dal denaro non si costruiscono case, il denaro non sostituisce alcuna assistenza e alcuna comunità.

Sussistenza non significa autarchia, come è definita nella nostra società frantumata e individualizzata, per sminuirne il significato. Perché nella società della concorrenza inserita nell’economia della crescita, in cui predomina la cultura dell’homo homini lupus (Thomas Hobbes 1651), risulta difficile connettere la sovranità indipendente della persona e la cooperazione comunitaria. Nel nuovo concetto della sovranità alimentare, invece, esse lo sono. Ciò non ha niente a che vedere con l’isolazionismo autarchico.


I principi di una politica della prospettiva di sussistenza

1. Politica di sussistenza è una politica del quotidiano, praticata dal «basso», dall’individuo attivo e consapevole delle proprie responsabilità e non dall’«alto», da parte di un’autorità superiore.

2. Politica di sussistenza è una politica del necessario, dell’immanenza anziché della trascendenza.

3. La politica per la sussistenza si orienta al concreto, al materiale, al corporeo, al sensoriale e si indirizza contro il denaro e l’anonimia della merce.

4. Orientamento alla sussistenza è una politica per la ricostruzione della comunità.

Sul punto n.1: Politica di sussistenza come politica dell’individuo fondata sulla quotidianità e sull’iniziativa

L’episodio che segue può illustrare ciò che qui si intende. Molti anni fa ho partecipato al ricevimento di Capodanno del governo regionale. Si parlava delle più recenti statistiche agrarie. Era calato ulteriormente il numero delle imprese i cui titolari svolgevano un’attività secondaria. Sospiro di sollievo da parte dell’uomo che casualmente si trovava accanto a me, il presidente della Camera di commercio e dell’industria: «Questo è un bene – affermò – Nelle trattative contrattuali i lavoratori che possiedono il piccolo podere che coltivano, sono particolarmente ostinati». Ah sì, per quale motivo? pensai.

Molto semplicemente perché essi non dipendono interamente dal salario per la loro sussistenza e perciò non temono così tanto la cosiddetta disoccupazione. Di norma, alle nostre latitudini, è la donna che coltiva i campi come attività secondaria. L’occupazione secondaria costituisce la principale occupazione femminile. La garanzia della sussistenza dipende da lei. Dal punto di vista della crescita economica questa modalità di divisione del lavoro, in base al genere, è vista come uno svantaggio per le donne, ovvero a livello europeo i campi, i piccoli appezzamenti contadini, non le grandi aziende agricole, di fatto o di diritto sono in mano alle donne.

A quasi nessuno viene in mente che le donne decidano di essere contadine autonome. A mio parere, al contrario, questo è un esempio di come al giorno d’oggi, in condizioni capitalistiche assolutamente patriarcali, si possa esprimere una politica matriarcale.

Con il mio aneddoto del ricevimento di inizio anno non voglio dire che coloro che non dispongono di un pezzo di terra abbiano necessariamente un minore spirito di resistenza di fronte alle costrizioni dell’economia della crescita. La realtà concreta rivela piuttosto che soltanto l’orientamento alla sussistenza, cioè l’orientamento a ciò che quotidianamente è necessario per vivere – cibo, abiti, un tetto sopra la testa e i vicini – crea immaginari politici diversi. Altri obiettivi appaiono all’orizzonte oltre allo stipendio e alla spesa al supermercato.

Il movimento per l’urban gardening lo dimostra: «è la tua città, coltivala», recita uno dei loro slogan. La comprensione effettiva della politica di resistenza è distante mille miglia dalla collaborazione di un insieme di persone, che soltanto in base al loro numero ha il potere di strappare qualcosa al potere sovrastante. Al contrario, chi ha colto a fondo l’essenza del messaggio, prende le vanghe e trasforma i terreni a maggese in orti fioriti, con verdure che può consumare direttamente. Christa Müller ha parlato di questo movimento in modo più accurato e meglio informato. L’esempio mi serve anche per illustrare una questione più generale.

La forza politica del ventunesimo secolo risiede nell’individuo

Cambiare il mondo senza prendere il potere è il titolo di un’opera molto profonda di John Holloway (nota di Comune-info: l’edizione italiana è stata curata da Marco Calabria e pubblicata da Carta/Intra Moenia nel 2004; Crack Capitalism, Derive Approdi 2012, è la «figlia», come scrive Holloway, di Cambiare il mondo senza prendere il potere).

Egli intende con ciò una trasformazione dei rapporti sociali attraverso la mutata organizzazione delle condizioni di vita laddove l’uomo moderno è anche in grado di compiere scelte autonome nella vita di tutti i giorni. L’isolamento degli individui nel nostro tempo è sì un problema, ma allo stesso tempo anche un’opportunità. Ad esso corrisponde la struttura di potere sociale specifica della nostra epoca, storicamente nuova.

A confrontarsi con l’apparato di potere non sono più le caste, i ceti, le classi o le razze, o meglio lo sono sempre meno, mentre lo è l’individuo che per poter sopravvivere, è sempre più direttamente sottomesso al dominio dei grandi gruppi industriali e delle banche, vale a dire al loro denaro, alle loro merci e al loro mercato, il cosiddetto libero mercato. La coercizione del sistema del denaro e delle merci ha tendenze totalitarie.

Lo stato, in quanto istanza mediatrice, svolge un ruolo sempre meno importante, sia fra lavoro salariato e capitale, sia per i servizi pubblici come compito della comunità, quali il servizio idrico, le strade, la corrente elettrica, i servizi postali, le comunicazioni, e così via. Infatti, invece del ruolo di mediatore, lo Stato ad est, ovest, nord e sud, assume quello di garante del funzionamento del sistema delle merci, votato alla massimizzazione economica, servendosi delle tradizionali istituzioni della violenza statale. Il modo di sentire che guida la politica quotidiana dell’individuo che agisce in modo sovrano non è quella della giustizia sociale, misurata e concessa da un’autorità superiore, e quindi dall’alto, ma quella dell’uguaglianza orizzontale. La nostra condizione umana (Qua conditio humana) ci rende tutti uguali, pari, perché tutti nati da una madre.

Sul punto n.2: la politica di sussistenza è la politica del necessario, dell’immanenza anziché della trascendenza

Riconciliare concettualmente Politica e Sussistenza rappresenta una sfida ai tempi della mania di grandezza globalizzata della massimizzazione economica. «Queste però sono cose insignificanti», mi capita spesso di sentire. E anche: «I vostri esempi trattano soltanto di cibo, come la mettiamo con le altre necessità, il computer, l’automobile etc.?».

Io resto sempre stupefatta da quel «soltanto» riferito al cibo. Soltanto il cibo?

Mangiamo tre volte al giorno. Quelli che non hanno abbastanza di cui nutrirsi e che languono e muoiono, sono oltre un miliardo, più numerosi degli abitanti dell’Europa e degli Stati uniti messi assieme. «Cereali come arma» era uno strumento della politica statunitense, soprattutto nei confronti dell’Africa.

I grandi capitali finanziari, le banche, come la Deutsche Bank o la svizzera Ubs, pubblicizzano investimenti nei cosiddetti titoli agricoli, che promettono rendimenti particolarmente sicuri, semplicemente perché la popolazione mondiale cresce e le persone devono mangiare. Mentre i nuovi signori del mondo, i grandi gruppi industriali e gli istituti finanziari, da tempo hanno scoperto che le necessità di sussistenza sono il territorio di caccia più sicuro per i loro utili, e anzi da tempo le sfruttano – si vedano ad esempio anche i vari supermercati come Aldi, Walmart etc., le «vittime» credono ancora di dover litigare per la distribuzione socialmente equa del denaro. Come se questo fosse più importante del cibo. Esse non riconoscono i tratti totalitari del sistema del denaro e delle merci.

Qual è l’origine di questa errata valutazione del significato dell’alimentazione, così largamente diffusa e così profondamente penetrata nella scala dei valori? La scarsa considerazione della produzione di sussistenza è uno dei pilastri della cultura patriarcale occidentale. Ad Atene, culla della democrazia e del pensiero filosofico occidentale, erano le donne e gli schiavi ad occuparsi del cibo e delle altre attività di sussistenza, mentre i grandi uomini e i cittadini liberi tenevano discorsi politici presso l’Areopago. Chi doveva curare la sussistenza era considerata una persona non libera.

Questa idea condiziona ancora la nostra cultura. Si ritiene che il regno della libertà si trovi al di là del regno della necessità. E coloro i quali si occupano della sussistenza vengono per questo stesso motivo scarsamente considerati: madri, donne in generale, contadini e contadine, domestiche e donne delle pulizie, e così via. La demarcazione rispetto alla sussistenza è l’essenza fondamentale della gerarchia, del potere e del dominio, non solo in occidente. Di più, essa è il nucleo centrale del patriarcato, di tutti i patriarcati. È la negazione del fatto che i bambini nascono dalle donne, che la fertilità ha origine dalla madre Terra. Come sappiamo, la negazione è legata alla violenza. Con la violenza la negazione viene messa in atto.

Essere un guerriero presuppone che ci siano altri che si curano di ciò che garantisce la sopravvivenza. Queste persone vengono depredate, spremute a livello fiscale, oppure vengono a ciò costrette, per effetto della pressione violenta, come le donne presso i Baruya, o come la casalinga moderna o la donna lavoratrice double shift (che unisce lavoro salariato e lavoro di cura e domestico), oppure la madre lavoratrice triple shift, che per quello stesso lavoro riceve un salario inferiore rispetto agli uomini. Il distacco dalla sussistenza è il terreno sul quale si sviluppa la cultura di massa capitalistica. Non doversi più sporcare le mani era uno degli stimoli per il lavoro industriale.

Poter lavorare per il denaro – dunque vendere la forza lavoro come merce – invece di lavorare direttamente nei campi, in giardino, in cucina, in casa e per i bambini, appare come il passaggio decisivo per uscire dal disprezzo sociale, anche nella concezione del mondo femminile.

Che aspetto avrebbe oggi il nostro mondo, se il movimento femminista avesse lottato per obiettivi diversi? Ad esempio, per il diritto della donna al lavoro di sussistenza e alla maternità, in difesa degli ambiti di sussistenza, contro la loro commercializzazione e per il rafforzamento di strutture sociali autonome della produzione di sussistenza, invece di soffermarsi sul lavoro salariato? La promessa di raggiungere, attraverso la sottomissione ai rapporti di lavoro e di vita dell’economia della crescita, il regno della libertà al di là delle necessità di sussistenza, è una delle più importanti forze motrici dell’ordine sociale dominante.

Essere liberato dalla necessità è il classico principio patriarcale della trascendenza. L’economia della crescita è tipicamente trascendente, nella misura in cui la «liberazione» viene promessa per il futuro. Se oggi in Germania, in Svizzera o in qualsivoglia altro luogo, si investe, le banche vengono «salvate», gli stipendi ridotti e il sistema di sicurezza sociale smantellato, domani tutto questo forse porterà dei frutti e dopodomani staremo tutti bene.

Se gli agricoltori oggi investono in una stalla più grande per l’ingrasso dei maiali, solamente in seguito – e presumibilmente soltanto in seguito, afferma la Camera dell’agricoltura – potranno rimanere sul mercato. Allora saranno una delle cosiddette imprese del futuro. Per far ciò devono indebitarsi e ipotecare la loro terra. La sazietà, la soddisfazione e la stima non risiedono in ciò che è presente e nei processi vitali ad esso legati, ma soltanto al di là di esso. Questo è patriarcale.

La politica di sussistenza segue invece l’immanente. È matriarcale. Il senso e lo spirito risiedono nelle cose, in questo mondo, su questa terra. Si pensi soltanto alla mitologia del paesaggio. Proprio in questo senso una politica di sussistenza dovrebbe iniziare dal cibo. Come ci procuriamo il cibo e dove? Come appaiono le condizioni di coloro che coltivano le piante e allevano gli animali? Come ci si rapporta alle piante e agli animali? Come si fa con l’acqua, che ci tiene tutti in vita? Le risposte a queste domande conducono alla politica dell’attività economica locale, regionale.

L’obiettivo è che il paesaggio ambientale al quale appartengo, perché qui sta il territorio che mi sostiene, costituisca anche la base del mio sostentamento per le necessità vitali. Certo, non tutto ciò di cui ho bisogno potrà provenire dalla regione in cui vivo, ma il solo agire in base a questo principio fondamentale ci conduce avanti. Ciò vale soprattutto in riferimento al cibo. È il punto di partenza, il centro dal quale i cicli del necessario saranno mossi sempre più su scala regionale e meno su scala globale.

Sul punto n.3: la politica di sussistenza si pone contro l’astrazione del denaro e contro l’anonimato della merce

Che cosa significa immanenza in riferimento al nostro rapporto col denaro? Che rapporto ha con il denaro l’umanità del nostro tempo, incapace di pensare e avere sentimenti nel segno dell’immanenza? Per noi esseri umani del presente è difficile riconoscere o meglio comprendere il lato concreto, materiale, vitale delle cose prima ancora di interrogarci sull’astrazione di valore: Quanto costa? Oppure, che cosa comporta?

Da questa prospettiva, le condizioni naturali si trasformano in risorse e la relazione con la natura ha soltanto la forma del tempo libero o del fitness. Vediamo dappertutto il valore-denaro e non il reale valore delle cose, che sta, ad esempio, nel buon sapore dei pomodori maturi, nella freschezza dell’acqua, oppure nel grado di spensieratezza e di felicità di bambini e anziani, se assistiti assecondando il loro ritmo vitale, con pazienza, calma e tranquillità. Nell’epoca del denaro come misura delle cose, tuttavia, al centro non ci sono l’assistenza e il dare, bensì il prendere e il voler avere.

Vige la regola del do ut des, io do affinché tu mi dia. È il principio patriarcale dell’appropriazione bellica, e cioè dello scambio equivalente in pellicce di montone. Quanto è diversa, invece, la cura materna per la sussistenza dei figli. Essa comporta un dare senza condizione di una controprestazione, semplicemente perché il bambino ne ha bisogno. Ed è un bisogno necessario alla vita, perché altrimenti non ci sarebbe alcuna società. Anche nella nostra epoca l’atto materno del dare è il punto di partenza per un’altra economia e per un’altra società, non utilitaristiche. Il denaro rende egocentrici. È l’oggettivazione, o meglio il feticcio dell’egocentrismo. Il denaro non unisce, ma divide gli esseri umani l’uno dall’altro, ostacola le relazioni sociali. Denaro o vita.

La politica di sussistenza si pone contro questa perdita di relazioni ad ogni livello, contrastando l’astrazione del denaro e l’anonimato delle merci. La parola d’ordine è demercificazione, e cioè in modo molto pragmatico, dove e quando capita. Così mineremo alle fondamenta, lentamente ma in modo certo, il potere totalitario del sistema del denaro e delle merci. La politica di sussistenza è la politica del quotidiano, «dal basso», attuata dall’individuo conscio delle proprie responsabilità, che indica il percorso che conduce oltre l’economia della crescita, verso la gift economy.

Sul punto n.4: l’orientamento alla sussistenza è una politica per la ricostruzione della società

Una politica orientata alla sussistenza dell’individuo consapevole delle proprie responsabilità è il contrario di una politica dell’individualizzazione. Poiché l’orientamento al necessario, al valore effettivo materiale e concreto conduce all’attenzione nei confronti dell’umano e della natura. Così il senso di responsabilità per ciò che è comunitario può di nuovo rafforzarsi, e cioè molto concretamente a favore delle terre comuni, note anche come commons, i cosiddetti beni comuni.

Con il termine global commons vengono oggi definite le condizioni naturali che sono comuni all’intera umanità, come l’atmosfera, il clima, i mari, l’abbondanza di pesce, la biodiversità, tutto ciò di cui ci si preoccupa in tutto il mondo a causa della distruzione determinata dalla globalizzazione. Proprio in questo contesto la politica di sussistenza dal basso, dell’individuo, del quotidiano e del locale assume un’importanza fondamentale. Perché soltanto una politica della percezione del reale valore, che nasce in base alla propria corporeità, alla propria stretta relazione con le persone, le piante, gli animali, la terra, l’aria, ecc., conduce anche ad una vera attenzione per ogni cosa.

Questa cultura viene sostenuta, nel grande come nel piccolo, dai valori della cura materna, così come viene magnificamente espresso all’articolo 1, comma 1 del progetto di Convenzione Onu:

«Il bene comune più alto e universale, la condizione di esistenza per tutti gli altri beni, è la Terra stessa. Perché essa è la nostra Grande Madre, che deve essere amata, rispettata, curata e onorata, così come la nostra stessa madre».

http://comune-info.net/2012/09/e-il-mondo-di-tutti-cambiamolo/

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