Dall’11 Settembre, demolizione controllata dell’umanità

11/09/2021 - Te la ricordi, quella vecchia
storia? Gli aerei che picchiano contro i palazzi? L’America indifesa, il mondo attonito. L’inferno del fumo, le vittime, i soccorritori intossicati e sepolti dalla cenere. Quanto tempo è passato, da allora? Vent’anni. Cioè niente, in teoria, per i tempi della storia. In questo caso, invece, vent’anni sono tutto. Perché ci sono eventi che forgiano il presente, lo rifondano. Sono avvenimenti esiziali, rispetto ai quali esiste un dopo e un prima. Come si viveva, prima? Si era relativamente liberi, mediamente infelici oppure allegri, spensierati, ordinariamente annoiati o magari indignati dalla contabilità delle ingiustizie. La sensazione era che ogni avversità fosse comunque affrontabile, ogni opinione esprimibile e ogni soluzione discutibile, e che le conseguenze non fossero immediatamente globali. Buoni e cattivi recitavano insieme, nell’avanspettacolo della geopolitica, cioè ai piani bassi dove conta davvero il soldo, la paga del mercenario, il cospicuo fatturato occulto dei mandanti.



Tutto era già infinitamente corrotto, con il nostro tacito consenso. Il demiurgo era al lavoro, come sempre, ma al pubblico meno assonnato restava l’illusione della presenza di un sindacato dell’umanità, qualcuno o qualcosa che avesse ereditato l’impegno di una promessa. Poi c’è stato il crollo, l’infarto senza preavviso: il precipitare convulso in cui il tempo non esiste più, la terra ti manca sotto i piedi. Illustri cassandre non avevano lesinato avvertimenti: Giulietto Chiesa evocava la caduta dell’Impero Romano. L’impossibile, che diventa possibile. Frana tutto, cadono le colonne, avviene l’impensabile. Frana da un giorno all’altro, un maledetto martedì: sfogliando i petali della settimana, l’alba guerriera di Marte. Come per un mostruoso, sinistro rito propiziatorio. Un’orgia di terrore, perfettamente speculare all’altro 11 settembre, quello cileno, giusto per firmare in modo leggibile lo spaventoso replay, appositamente programmato in modo da sprofondare tutti nella paura.

Poi sarebbero venute anche le guerre asimmetriche, come da copione: la farsa spudorata dei vari casus belli, i barbari feroci e le loro armi inesistenti, le stragi di civili, il fosforo e l’uranio dei bombardamenti a tappeto. Sapeva, il demiurgo, che il grosso del pubblico non si sarebbe accorto della sua presenza, dietro le quinte: si sarebbe bevuto tutto, anche le frottole più spassose. Già dal preambolo, l’anno prima, si poteva immaginare come sarebbe finita, la faccenda: allestita dalla solita, sapiente regia. Qualcuno aveva taroccato le elezioni, in Florida, volendo insediare a tutti i costi l’omino della guerra: il tipo giusto per recitare la parte, scritta da altri e destinata – per la prima volta, forse – all’intera ecumene terrestre, appena uscita (con sollievo) dall’altra grande fiction, durata mezzo secolo: quella del pericolo rosso annidato nell’Est, con tutti i suoi missili. Morto un Papa, se ne fa un altro: non era più adatto, il pensionato Gorbaciov, per le stagioni che sarebbero venute, grandinando lutti.

Vent’anni in cui è finito quasi tutto: la politica, l’informazione. La giustizia: sparita anch’essa nel cimitero della verità trasformato in discarica, insieme a molta arte, molto cinema, molta letteratura, molta musica. La colonna sonora si è fatta monotona, piatta: come se il regista, sempre lui, avesse abbassato il volume del grande cuore che, da qualche parte, nel mondo deve pur battere ancora. Sembra pulsare persino oggi, vent’anni dopo, nel pianeta delle scimmie imbavagliate e traumatizzate dal panico televisivo, dalla lingua metallica e post-umana dei decreti che si vanno succedendo, tra obblighi e divieti, firmati dai tradizionali figuranti a cui ormai si è fatta l’abitudine. Vent’anni in cui si sono scoperchiati verminai, sono state portate alla luce le trame più subdole: il profilo criminale del grande show, del programma che qualcuno definisce zootecnico, squisitamente agroindustriale, concepito e condotto per allevare animali docili e dimentichi di sé, della loro antica dignità.

Riesce a vederlo, tutto questo, l’immenso vivaio delle cavie? Riesce a capire in mezzo a quale lordura è costretto a sopravvivere, oggi, nell’inferno burocratico delle deliranti prescrizioni quotidiane basate sulla falsificazione sistematica della realtà? Statistica: uno su tre, dicono gli ottimisti. Un essere umano su tre, persino nella sciaguratissima Italia – epicentro europeo della tragedia, avamposto del peggio – ormai afferra il senso profondamente fangoso di questa lunga stagione interminabile, inaugurata schiantando velivoli contro le altissime colonne del tempio civile di New York, l’amatissima capitale insonne del vecchio mondo, per cento anni vera e propria fabbrica di sogni. Il film, poi, lo si è visto: dove finiva New York, cominciava la polvere delle bombe. Un povero vecchio decrepito, oggi, ancora si domanda com’è che sia toccata proprio a lui la sciagurata sorte di finire a Washington, nell’anno in cui la Macchina stritolava tutto e spegneva impunemente qualsiasi voce non intonata al coro, compresa quella del presidente ancora in carica.

Non veniamo dalla Luna, ammettiamolo. Veniamo dai telegiornali, dal calcio, dalla malora indecente dei partiti italiani. Veniamo dagli annunci religiosi, uno sull’altro: gli stregoni dello spread e gli scienziati dell’Onu pagati per riscrivere il clima, le treccioline della bambina svedese, le flotte politiche che traghettano africani defraudati e derubati di tutto. E poi le barbe nere dei tagliagole sbucati da un medioevo immaginario, l’eterno sventolio di vesti bianche dalle parti di Roma, il silenzio tombale della segregazione domiciliare e del coprifuoco, la persecuzione dei medici ancora impegnati a fare i medici, fino all’ultimo, anche rischiando la pelle. E infine, il lasciapassare. E il siero universale destinato allo zoo, in cambio della libertà condizionata. La violenza del sopruso è tale da cancellare ogni possibile intermediazione dialettica: l’inglese e l’italiano, ormai, sembrano lingue morte. Stanno finendo di cadere proprio oggi, le Torri Gemelle. Stanno ancora crollando, non hanno mai smesso di crollare.

Noi siamo ancora qui, per il momento: assistiamo allo spettacolo. Uno su tre: qualcuno avrebbe contato i sopravvissuti, quelli cui spetterà – per forza di cose – la ricostruzione. Se e quando sarà possibile. Ma non più come prima, come ieri. C’è chi si arrovella su una possibile via d’uscita, azzerando (per decenza) l’ugola umanoide di chi ancora blatera di Pil, di Ripartenze e Resilienze, e di tutte le altre proiezioni aliene della nuovissima zootecnia ultradigitale al grafene, dipinta di verde e amministrata da remoto, governata dalle antenne e dai satelliti codificando e registrando ogni singolo respiro. Numeri: le cavie sono numeri. Vivono l’incubo soffrendo, ma con differenziati livelli di consapevolezza. Nulla sarà più come prima, dice il muezzin. E com’era, prima? In fondo, niente si ripete mai in modo identico. Il gregge rassegnato che attende l’assestarsi del regime, quello della nuova normalità, probabilmente non sospetta che gli altri – i dissonanti, i reprobi – avessero in uggia anche la vecchia normalità: quella che, nel sonno generale, fece crollare un giorno anche le torri più indistruttibili.

Per la loro eventuale demolizione controllata, il Comune di New York aveva ufficialmente previsto niente di meno che il ricorso all’atomica, attraverso mini-cariche da collocare nelle fondamenta. Per i burloni, invece, sarebbero bastati due aerei di linea: tutti cretini, gli ingegneri di New York? E’ più complicata, in effetti, la demolizione controllata dell’umanità. Si procede per gradi, alternando scossoni e lusinghe, violenti traumi e narrazioni consolatorie. L’intero tessuto decisionale va meticolosamente corrotto, oliato con denaro, abilmente scoraggiato laddove mostri sacche di resistenza, ampiamente prevedibili anche quelle. Voci neutralizzate con l’aiuto incessante delle redazioni, dei talk, della carta straccia che ancora arriva in edicola e che quasi più nessuno legge. E’ nudo, ormai, il supremo devastatore: è uscito allo scoperto, non si nasconde più. E sembra avere una gran fretta di finire il lavoro: come se lo muovesse una paura inconfessabile. Qualcosa all’improvviso potrebbe andargli storto? Non è uno scherzo, la demolizione controllata dell’umanità.

(Giorgio Cattaneo, 11 settembre 2021)

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